Il modello del sapere hacker in quanto costruzione collettiva deve essere messo in discussione alla radice,
perché, prima di tutto, dobbiamo chiederci qual è il valore di uso sociale di quello che si produce in rete,
e che posto può occupare dentro una società che partecipi attivamente alla sua propria emancipazione.
Non basta, nemmeno un po’, liberare l’informazione se non si fa un esame radicale dei contenuti e dei fini di tale informazione;
l’utopia hacker potrebbe essere intenta a disegnare un intero meraviglioso mondo di interscambi immateriali
sulla base di una società schiacciata dallo sfruttamento e dal disastro ecologico (e cosi è).
“Gli hacker e lo spirito parassitario”
Los Amigos de Ludd, n. 5 maggio 2003
L’epoca in cui viviamo è infetta da una dilagante atrofia critica ed analitica. Si perdono i pezzi per strada, ci
si ferma al dito e lo si confonde con la luna. Parallelamente, e conseguentemente, notiamo un sempre
maggior entusiasmo nei confronti di quei palliativi concessici per placare i moti di coscienza e i fremiti di
rabbia. Il capitale, gestore e dispensatore di quella “cultura” che permette la gestione e l’applicazione del
dominio, ha depredato l’esistenza quotidiana dell’aspetto materiale e pratico della vita, se non in tutti quegli
ambiti deputati al proprio mantenimento. Le relazioni sociali ed affettive, e pur anche le pulsioni di
ribellione, vengono incanalate nella “società virtuale”, dove tutti possono sfruttare le comodità dell’ecommerce
mentre cercano “persone” e “amici” con cui instaurare rapporti e, nel contempo, creare blog,
forum controinformativi o virus e “Dos” (Denial of service, negazione di servizio, riferito a sistemi
informatici quali siti web) per “attaccare” le applicazioni informatiche del potere.
L’utopia ultra-tecnologica al suo apogeo.
All’interno della rete e delle sue molteplici applicazioni, nessuno sembra essere escluso; ognuno si sente
libero di partecipare e di dare il proprio contributo allo sviluppo di un “sapere nuovo”, sia in termini di
linguaggio che di significato.
La società informatizzata a livello planetario dispensa gratuita, e fittizia, partecipazione al bulimico regno
delle vuote opinioni a buon mercato. Per mezzo di un collegamento a internet (a marzo 2011 venivano
stimati 2,095 miliardi di utenti distribuiti in tutto il mondo, 30 milioni solo in Italia, con una percentuale di
quasi una connessione ogni tre abitanti), si possono creare profili personali virtuali, gruppi di discussione,
promuovere eventi nella “degradata e triste” vita reale e, perfino, “attaccare” il sistema di dominio.
Paradigmatico è il “fenomeno” Anonymous, da molti osannato come una sorta di cyber-vendicatore.
Anonymous – che mutua il proprio nome dalla sigla che identifica un utente internet che desidera mantenere
l’anonimato all’interno di forum, chat e community – è una sigla che inizia a far parlare di se già dal 2006 e
che, negli ultimi anni e mesi, è al culmine della propria popolarità.
Anonymous si compone di una rete di utenti internet auto-definitosi anonimi, i quali danno vita a proteste e
ad “azioni” di disturbo. Negli ultimi quattro anni, la coalizione anonima ha riscosso parecchie simpatie anche
tra anarchici e radicali per aver mandato in down i siti web di formazioni politiche di estrema destra, di varie
istituzioni e di multinazionali private, tanto da veder pubblicati i suoi comunicati anche su siti di
“movimento”.
Spesso ci si dimentica però di menzionare la collaborazione di Anonymous con la polizia (come nel caso
dell’arresto di un pedofilo in Canada nel 2007), il supporto ad alcuni partiti politici (come l’ “Iranian Green
Party), le campagne pro “Parlamento pulito” e gli attestati di stima verso la magistratura antimafia.
Sotto la maschera anti-gerarchica e d’informalità, si cela un becero liberal-democraticismo, che fa dei propri
cavalli di battaglia la tutela della privacy, valore tipicamente borghese, e l’avversione nei confronti della
censura all’interno del loro paradiso idilliaco, il web. Sintomatiche le forti campagne a supporto di Wikileaks
e di Megaupload.
La prospettiva implicitamente auspicata è la democrazia diretta, edificata sulle fondamenta degli strumenti
informatici; un’ottica in cui il potere, il diritto e la polizia sono interlocutori da ri-educare alle regole del foro
democratico, invece di essere obiettivi da annientare. La vecchia storia delle mele marce che vanno estirpate
dall’albero in salute.
Insomma, non è tutto oro ciò che luccica. Ma in questo caso, ed estendo il discorso a tutto il fenomeno
hacker, la patina dorata fa presto a cedere e a lasciar spazio alla vera natura desolante dei “pirati” della rete.
Ergersi a paladini della libera informazione, innanzitutto, non può voler dire altro se non collaborazione
attiva alla proliferazione e alla crescita di quel marasma di pacchetti-opinioni preconfezionati e gettati
nell’oceano della comunicazione telematica. Il ruolo della cosiddetta informazione nell’era tecnologicizzata è
quello di sommergere le persone – gli “utenti” – con una quantità esorbitante di dati e considerazioni a priori,
la cui piena comprensione diventa impossibile. Nessuna reale idea critica può essere elaborata; viene fornita
la possibilità di scegliere tra il mare di scarti culturali che il dominio dispensa a piene mani ai suoi schiavi. In
questo marasma sono andate perse le capacità per potercisi orientare criticamente. La fonte è inquinata, chi
ne beve contrae il morbo.
Non si può voler salvaguardare l’informazione in senso lato, liberarla, incrementando gli sclerotici mezzi
tecnologici che altro non sono che le applicazioni tecniche del capitale, il quale ha elevato l’informazione a
scienza del controllo e del dominio. Siamo davanti ad una contraddizione insanabile.
Veniamo ora alle velleitarie pretese conflittuali del mondo hacker, Anonymous compreso.
Si pretende di poter dare un contributo alla Lotta oscurando e violando siti internet istituzionali, di banche e
multinazionali, cercando così di dimostrare una fragilità strutturale del sistema. Niente di più falso. Certo,
possono esserci falle nei sistemi di sicurezza delle reti, ma l’utilizzo della tecnologia informatica, in
qualsivoglia applicazione e con qualunque scopo, non fa altro che irrobustire il moloch. Una iper-macchina,
fiore all’occhiello e punto di arrivo della produzione tardo-capitalistica, che si autoalimenta per mezzo del
suo semplice utilizzo. Un meccanismo che non può essere fermato, se non per mezzo della sua radicale
distruzione, e che non contempla, nella sua architettura funzionale, un’inversione di rotta. Gli hacker, spesso
dall’alto della loro svogliatezza/agiatezza, hanno fatto proprio lo spossessamento della vita reale e la sua
sostituzione con il proprio alter-ego digitale. Per questo credono di poter sviluppare istanze di lotta virtuale
che approdino, forse, un giorno al mondo della conflittualità reale, mentre, invero, non fanno altro che
porgere un ulteriore assist all’incremento del controllo tecnologico.
C’è chi gioisce, ad esempio, per il temporaneo crack dei siti web del Ministero dell’Interno e di quello della
Difesa operato da Anonymous. Anche se per quella manciata di ore le pagine internet degli assassini in divisa
non erano visibili, questi ultimi erano ancora in strada e in guerra. Lo spazio-tempo sfasato che regola la rete
non ha corrispondenza alcuna con i ritmi della vita materiale e con i suoi rapporti sociali. L’equivalenza tra
reale e virtuale è una carta, molto ben giocata tra l’altro, in mano al capitale e gli hacker l’hanno fatta loro,
portando a far quadrare il cerchio dell’ennesima opera di recupero.
I mezzi di un conflitto vanno adeguati al fine che ci si prepone. Pensare di voler lottare il dominio del
capitale sfruttando come arma le sue applicazioni e diramazioni tecnologiche è pura follia.
Va compresa una volta per tutte una semplice verità: la tecnologia informatica si nutre e cresce per mezzo del
proprio elementare ed univoco impiego. Inutile, e stupido, pensare di poterla rendere “al servizio del
popolo”; il suo sviluppo e la sua diffusione soddisfano ben altri interessi. Le comodità con cui viene barattata
l’abdicazione alla propria specificità esistenziale sono solo la punta dell’iceberg. Dietro a Facebook c’è il più
grande database/schedario di profili personali disponibile per ogni forza di polizia, dietro a Google c’è una
spietata ricerca e successiva invasione pubblicitaria, dietro ai siti e-commerce vi è una spaventosa estensione
finanziaria, l’indirizzo IP di ogni connessione traccia una mappatura completa dei propri interessi, gusti,
acquisti, ricerche, ecc.
La “società virtuale” irretisce, come è ovvio che sia, nella sua gabbia anche chi è convinto di poterla
combattere dall’interno. Anche se, ad essere precisi, il vero intento dell’hackerismo è una diversa gestione
dell’informatica, una sua democraticizzazione, non certo la sua distruzione, che significherebbe il collasso
esistenziale degli utenti-pirati-anonimi.
Concludendo, non possiamo che riconoscere nel fenomeno hacker una ulteriore forma di istanza democratica
e di tacito collaborazionismo, nel peggiore dei casi; nel migliore, una teoria e una pratica poggianti su labili e
confuse basi recuperate ad arte da chi ne ha permesso la nascita e l’estensione.
Resta quindi da rimboccarsi le maniche e, come sempre, da scovare gli angoli di attacco – reale ed incisivo –
per poter colpire dove più nuoce. La rete è, si, virtuale, ma la sua esistenza poggia ancora le basi su
innumerevoli strutture fisiche, su ragnatele di cablaggio sparse ovunque, su onde radio smistate da migliaia
di ripetitori e celle di agganciamento, su più o meno celate stanze-server.
C’è un solo modo per rendere migliore la rete: arrivare alla sua radicale e totale distruzione.