Aprire gli occhi…

4-rid-ignoranzaDi fatto non è facile rendersi conto di quello che spinge la forza collettiva, di cosa consente bene o male all’umanità di superare le prossime ventiquattr’ore e poi andare ancora avanti. Un equilibrio precario di legami fasulli e fedi mal riposte? Senza dubbio anche questo, ma anche qualcosa d’altro. Il sogno della felicità, in primo luogo. Il miraggio della propria vita vissuta e non solo vista dal di fuori, mentre le palpebre si chiudono per il sonno nella metropolitana del mattino. L’amore eccessivo, battiti del cuore e possesso e essere posseduti, mentre la sera si torna a casa troppo stanchi per qualcosa di diverso dalla solita carezza prima di girarsi dall’altra parte. Un odio radicale, vero, figlio e padre dell’amore, capace di spremere tutta l’adrenalina in una volta, non i soliti surrogati dello stadio o dell’ubriacatura di fine settimana. La bellezza di un sogno sospeso fra il niente della musica, un pensiero che vola subito via fino a restare soltanto sentimento sempre inappagato e sempre risorgente, non gli stereotipi da discoteca o i corrispondenti surrogati intellettuali di chi ascolta sempre lo stesso disco, naturalmente il migliore soltanto per lui. Tutto ciò vive una vita possente all’interno della forza collettiva, ma non è univocamente mezzo di progresso, per non parlare di quell’emancipazione che nessuno sa bene cosa sia visto che nessuno sa da cosa ci si dovrebbe emancipare. (Chi non conosce i tristissimi risultati dell’emancipazione femminile?). Al suo interno, in un vorticoso via vai di contraddizioni e ripresentazioni, di modelli buttati lestamente e di riscoperte vecchie di secoli, si muove il mastodonte produttivo, il connubio artificioso delle cose fatte, del fare bene oleato, degli operai con il loro lavoro, delle massaie con i loro frugoletti e la cucina non più economica, dei pensionati con la loro coda mensile alla posta nell’attesa fremente di godersi il prossimo scippo.                                                                                                                                              

Tutto ciò ha un nome vero: si tratta dell’esistenza, dell’esistenza quotidiana che tutti meniamo in un modo o nell’altro. Ed ha un nome usurpato: “vita“. Molti si gonfiano la bocca con quest’ultimo nome ottenendo come risultato di fare confusione.

All’interno del mondo produttivo che tutti ci ospita, anche coloro che sono dotati di corde vocali forti da rintronarci le orecchie, nessuno “vive”, tutti esistono.                                                      

Fatta questa precisazione, molte cose possono essere dette più pacatamente e con meno rischi di equivoco.

Non c’è motivo alcuno perché il lavoro debba rendere liberi, il lavoro produce il tipo di schiavitù moderna che ben conosciamo. Guardando in faccia gli uomini e le donne che ci passano accanto vediamo le stimmate dello schiavo, allo stesso modo quando ci laviamo i denti la mattina, sbirciando nello specchio del bagno. Nessuno è privo di responsabilità nei riguardi del processo lavorativo nel suo insieme, tutti partecipiamo dello sfruttamento, siamo, nello stesso tempo, sfruttati e sfruttatori.

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