Sono trascorsi una manciata di giorni dalla morte di un capo di governo straniero, di un paese dell’America latina, malato da lungo tempo. La notizia non ha colto di sorpresa nessuno. Era attesa, quasi scontata. Così come era scontato il cordoglio più o meno ipocrita delle cancellerie di mezzo mondo ed il lutto di milioni di suoi connazionali, quei sudditi che infestano da secoli il pianeta stringendosi attorno ai loro padroni. Desiderando la scomparsa di ogni Stato, a noi la morte di costui ha lasciato pressoché indifferenti. Solo un mezzo sorriso – che la morte di un capo di governo fa sempre piacere – ma nulla più. Fosse stata causata da un atto di rivolta, allora sì che ci sarebbe stato da festeggiare per la sua scomparsa. Ma per un cancro, naturale o indotto che sia, che gusto c’è?
Se l’annuncio della sua morte ci ha sfiorato appena, alcuni necrologi apparsi qui in Italia nei giorni seguenti sono riusciti invece ad attirare la nostra attenzione. Sì, perché non tutti hanno condiviso la nostra indifferenza, c’è chi piange per davvero la morte di costui. Già, avremmo dovuto immaginarlo. In qualità di vessillo del socialismo di Stato latino-americano, designato erede del Fidel (che invece ha preceduto nella tomba), era ovvio che la sua dipartita avrebbe spremuto per bene la ghiandole lacrimali di tutti i sinistri terzomondisti.
Ecco, qui siamo davanti ad uno di quegli esempi in grado di dimostrare come, in ambito sovversivo, a separare autoritari e anti-autoritari non sia affatto una divergenza teorica, una discrepanza di obiettivi o una diversità metodologica. C’è un abisso – passateci il termine – antropologico.
I terzomondisti sono quei pasciuti rivoluzionari occidentali che hanno parole di approvazione per chiunque, ad un continente di distanza, dica di battersi in difesa degli oppressi. Sono persuasi che nelle contrade lontane lo spirito critico debba essere messo al bando perché altrimenti si fa – «oggettivamente», va da sé – il gioco del nemico, ovvero l’imperialismo yankee. Si tratta della riproposizione moderna della vecchia litania stalinista, quella secondo cui chi criticava il governo di Mosca era per forza di cose al soldo del governo di Berlino o di Washington. Col tempo questa accusa si è sfumata e viene riservata per lo più ai soli “nemici interni”. I dissidenti cubani in esilio (anarchici compresi), ad esempio, sono stati più volte accusati d’essere finanziati dalla Cia. Altrimenti, come avrebbero potuto non accogliere con gratitudine le leggi del Leader Maximo? Temiamo che anche i dissidenti connazionali dell’estinto siano vittime delle stesse miserabili illazioni.
Ma qui, ad un oceano di distanza, beh, qui si preferiscono altre argomentazioni. Qui chi critica gli Stati socialisti lontani pecca di «eurocentrismo», perché non comprende che i criteri interpretativi abitualmente usati in occidente non possono essere applicati anche altrove. Osservazione strabiliante. È più o meno quanto sostengono per difendersi coloro che praticano il turismo sessuale. Con una differenza: i cosiddetti turisti sessuali vanno altrove per poter fare ciò che non possono fare nel proprio paese, mentre i terzomondisti accettano per altri altrove ciò che non accetterebbero mai per se stessi nel proprio paese. Ma vi immaginate la loro reazione se qui in Europa un ufficiale dei parà, dopo aver scontato un paio d’anni di galera per un tentato colpo di Stato, arrivasse al potere? Come minimo invocherebbero la mobilitazione permanente contro il fascismo. Invece, se lo fa un ufficiale dei parà dell’America Latina… hasta siempre Comandante! Basta una mano di rosso, una propaganda che sputa di continuo la parola popolo, ed ecco lo Stato, il governo, l’esercito, la polizia, la magistratura, le prigioni… e tutto ciò che garantisce da sempre l’orrore quotidiano diventare d’incanto nobili istituzioni da sostenere e proteggere. Costoro non si rendono nemmeno conto di quanto il loro sedicente «rifiuto dell’eurocentrismo» sia null’altro che una forma di razzismo rovesciato. Perché mai gli sfruttati d’altri paesi dovrebbero accettare quanto viene considerato inaccettabile dagli sfruttati di qui? Perché in America latina si dovrebbero applaudire i militari? Perché in Asia ci si dovrebbe prostrare a un comitato centrale? Perché in Africa si dovrebbero onorare i riti religiosi?
Perché ovunque, a qualsiasi latitudine, non si dovrebbe lanciare una sfida contro l’esistente, le sue certezze, le sue consuetudini, i suoi luoghi comuni, le sue istituzioni?
È questo l’abisso antropologico cui accennavamo, la differenza radicale e incolmabile fra chi vuole un diverso riassetto della realtà così come la conosciamo e chi desidera tutt’altro.