A. “Un brutto sogno”.

Ho fatto un sogno.

Mi sono svegliato col respiro affannato e madido di sudore, con le goccia tiepide che scendevano dal viso sul cuscino bagnato.

Ho sognato di essere ad un corteo. A questo corteo tutti avevano la propria bandiera in mano, mentre chi ne era sprovvisto veniva obbligato ad acquistarne una alle bancarelle ufficiali tra quelle disponibili  dei diversi raket politici e sindacali.
In questo corteo farsi riconoscere era imperativo. L’autoidentificazione era prima di tutto.

Ho sognato che in questo corteo, se non accettavi di farti riconoscere, ovvero di identificarti attraverso queste bandiere ufficiali, venivi prima allontanato e, qualora insistessi nel non sbandierare un’appartenenza formale e accreditata, venivi accerchiato ed insultato coi più fantasiosi epiteti ed in qualche caso malmenato da sedicenti pacifisti.

Ho sognato che alle caratteristiche bancarelle, tra le bandiere di partito e quelle dei sindacati legittimi, vi si potevano trovare pure i diversi gadget, sempre ufficiali, con i loghi delle multinazionali. Infatti, nel sogno, gli operai al corteo vestivano tutti con felpe e cappellini firmati Alcoa, Fiat, Ilva, Thyssen Krupp…
Tutti incordonati, questi operai con il tag aziendale fieramente indossato, erano simili ai moderni sportivi con i loro bei loghi degli sponsor sulla tuta.

Si muovevano marciando compatti, intonando lo stesso slogan ritmato come un mantra: “Lavoro! Lavoro!”. Era la suprema invocazione di una merce ormai rara, attraverso la cui richiesta esplicitavano e riconoscevano ai loro sponsor il diritto a disporre della loro vita e della loro morte.

In questo sogno sembrava che codesto corteo, anzi tutti i cortei ormai venissero sponsorizzati dalle aziende multinazionali. Difatti l’atteggiamento di questi operai non era incazzato, tranne che nei confronti di quei pochi che, come detto, ancora si ostinavano a non farsi riconoscere, a non sventolare nessuna bandiera, a non indossare nemmeno il cappellino con gli sponsor della manifestazione.
Le multinazionali-sponsor facevano organizzare questi cortei di tanto in tanto, con il proposito di far sfogare i loro operai, “due minuti d’odio” in cui dargli un’effimera quanto breve ed illusoria sensazione di importanza. In secondo luogo così le aziende potevano farsi anche un po’ di pubblicità con i gadget ed il marketing ufficiale.

Ho sognato poi che vi era un palco, e su questo palco vi erano delle persone.
Erano, in modo evidente, i capi del corteo, anzi di tutti quanti i cortei. Questi capi carismatici sembrava avessero molte cose importanti da dire, dato che avevano convenuto di parlare soltanto loro per tutti.
Portavano il verbo ufficiale, la religione del lavoro. Come i cristiani prima di loro, predicavano la sottomissione e il sacrificio. La meta, il fine ultimo, però mi sfuggivano.
Se le finalità di sottomissione e sacrificio non mi erano ben chiare, dovevano però esserlo per tutti gli altri attorno a me, visto che ad ogni slogan lanciato dai capi, recitato con sopraffina arte retorica, urla di approvazione ed entusiasmo si alzavano dalla piazza intiera.
Era come in una grande chiesa a cielo aperto, coi pastori e coi fedeli, dove le pecorelle invocavano a lungo il loro Dio perduto, nel tripudio generale per i tribuni.

Era una chiesa all’aperto in cui si piangeva e ci si rincuorava a vicenda, ci si identificava con gli altri e coi propri capi, ci si riconosceva come appartenenti ad una medesima ed unica religione con un solo e unico Dio. E si costringeva tutti gli altri a fare lo stesso.

Ad un certo punto ho sognato…che anche io, in mezzo agli altri vestiti uguale, nella mano destra avevo una bandiera, uguale alle altre, o forse con piccole differenze ma insignificanti, ed anch’io, orrore, indossavo una felpa della Fiat, o forse di un’altra multinazionale, ora non ricordo.
Come gli altri…senza Io, ma con Dio nel cuore e Dio nel cervello.

…ed è allora che mi sono svegliato di soprassalto.
Col respiro affannato e madido di sudore.

A.

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