Un fondamentale quanto comune errore di calcolo in cui spesso incappiamo è il considerare il dominio – uomini, strutture ed applicazioni che danno vita allo sfruttamento – come unico responsabile, o quasi, delle immani tragedie che affliggono la “vita” dei nostri giorni.
Se ci accostiamo ad una qualsiasi delle analisi che dipingono le nostre deprimenti città, vari collanti possono essere quanto la polizia sia ignobile, lo stato assassino, come il lavoro sia degradante, ecc. Tutte queste analisi sono certamente vere ma altrettanto parziali; attribuire le responsabilità di questo sistema solo ai massacratori di stato e al saldo del capitale è una scappatoia, e di quelle più vili.
Il travagliato periodo che “ospita” le nostre vite fonda le proprie radici su una merce, a prima vista, immateriale: la pacificazione sociale. Cadute le – aberranti – ideologie “forti”, tutto dev’essere ora nel segno della moderazione, dello smussamento, del dialogo e della partecipazione democratica. La premessa fondamentale dalla quale parte e si sviluppa questo modello “debole” di dittatura è il baratto. Beninteso non come formula economica di scambio di prodotti e materie prime, bensì come permuta tra una vita vissuta ed un’arrancante sopravvivenza ottenuta grazie al famoso piatto di lenticchie.
Non staremo qui a sviscerarne le motivazioni, ci sembra che il quadro parli da solo. Il periglio di una vita senza compromessi, all’insegna della libertà e dello scontro quando necessario, non è certo sinonimo di “stabilità”. Purtroppo quella stabilità è assunta a valore ed a desiderio per quell’insieme di esistenze generate ed evolutesi all’interno del gregge.
Per arrivare ad una tranquillità quotidiana si è allora, forse inconsciamente, rinunciato a tutte quelle caratteristiche che rendono liberi ed unici uomini e donne: libertà, autodeterminazione, fierezza, conflittualità.
L’attuale piano del dominio si è innestato su questa “domanda” di tranquillità esistenziale: ha favorito ed estremizzato l’estirpamento di tutte quelle pulsioni e passioni individuali ribelli. Ma, astuto, ha saputo anche prevedere che non si poteva disumanizzare il mondo senza concedere qualcosa in cambio. Non era possibile, nei piani degli sfruttatori, rimuovere chirurgicamente tutte quelle caratteristiche che ancora rendevano gli individui “pericolosi” per l’impero degli affamatori; doveva applicare qualche “protesi”, instillare nuovi desideri e concedere qualche nuovo “svago”. E così è successo.
In contemporanea alla brutale deprivazione vitale, la macchina produttiva (sempre intesa in termini “esistenziali” di consenso) si è messa al lavoro come non mai, creando un surplus di “occasioni” con cui rimpiazzare le perdite. La valorizzazione del tempo libero, in cui ogni pedina avrebbe potuto e può gestire quel minimo di autonomia sprezzosamente concessale, si è declinata nella scelta tra infinite porzioni di vita intercambiabili ma pur sempre standardizzate e ripetibili. La nuova tecnologia informatica ha giocato un ruolo più che predominante in questa operazione mercantile.
Laddove la solitudine e l’isolamento potevano acutizzare l’alienamento e rendere l’individuo ancora cosciente del suo stato si è fatta strada la possibilità di “crearsi” – o, per meglio dire, di poter scegliere – una vita virtuale, in cui l’emarginazione adotta una maschera telematica. Nel buio della propria spelonca desolata, chiunque può tessere “rapporti” eterei cullando l’illusione di una vita reale quantomeno assaggiata.
Non solo la solitudine, però, viene acuita dalle condizioni attuali. Lo status sociale nel senso di rappresentazione personale nel mondo, non più specchio di un’appartenenza “di classe”, è a buon mercato quasi per tutti. Dove la rateizzazione e i prezzi stracciati a causa della produzione eccedente la richiesta sono diventati valori imperanti, a chiunque è concesso di possedere automobili, cellulari, computer e diavoleria varie di ultima generazione.
Finanche a voler considerare non il semplice possesso di merce bensì la qualità dell’esistenza che ci si trascina avanti ora dopo ora notiamo come le soluzioni – le briciole – elargite siano infinite. Dalle varie declinazioni del termine “alternativo”, per altro sempre in ambito di consumo, alle più disparate soluzioni per coabitazioni/convivenze/impieghi anticonformisti impacchettate ad arte. Si può mantenere anche un seppur minimo sentore della propria marginalità decisionale, ma le possibilità di realizzazione familiare o lavorativa (ovviamente, solo a breve termine) appannano questo residuato di consapevolezza e portano all’annegamento in un qualche squallido “lavoricchio” e all’imbrigliamento nelle maglie di una qualsiasi affettività asciutta e morta.
Si è ceduti al ricatto. Tranquillità per consenso, stabilità per controllo.
Quello che una volta era l’ “uomo comune” ora è soltanto un arido miserabile, svuotato di una individualità e depredato di quella specificità che dovrebbe renderci unici.
Un mansueto gregge silenzioso ed acquiescente.
Ed è proprio questo che spesso tralasciamo di considerare: il gregge come responsabile.
“Crudeltà e ingiustizia, intolleranza e oppressione. E lì dove una volta c’era la libertà di obiettare, di pensare, di parlare nel modo ritenuto più opportuno, lì ora avete censori e sistemi di sorveglianza, che vi costringono ad accondiscendere e sottomettervi. Com’è accaduto? Di chi è la colpa? Sicuramente ci sono alcuni più responsabili di altri che dovranno rispondere di tutto ciò; ma ancora una volta, a dire la verità, se cercate il colpevole… non c’è che da guardarsi allo specchio. Io so perché l’avete fatto: so che avevate paura, e chi non ne avrebbe avuta? Guerre, terrore, malattie: c’era una quantità enorme di problemi, una macchinazione diabolica atta a corrompere la vostra ragione e a privarvi del vostro buon senso. La paura si è impadronita di voi, ed il Caos mentale ha fatto sì che vi rivolgeste all’attuale Alto Cancelliere: Adam Sutler. Vi ha promesso ordine e pace in cambio del vostro silenzioso, obbediente consenso.”
Purtroppo duole dover arrivare a certe constatazioni. In primis perché, riconoscendo la responsabilità negli sfruttati, viene da chiedersi a chi affiancarsi nel percorso insurrezionale prima e rivoluzionario poi. Se vediamo gli esclusi come co-responsabili di questo mondo delirante e sclerotizzato, al fianco di chi lotteremo per incendiarlo?
È un’obiezione più che valida, molto spesso accantonata al pari dell’analisi, e che può far tremare le ginocchia. Tuttavia, il coraggio di dover arrivare a fare certe ammissioni deve altresì darci la spinta per cercare soluzioni e spiragli di intervento conseguenti.
Non si possono di certo commisurare le colpe degli sfruttatori e le mancanze degli sfruttati, per quanto il risultato sia la somma dei due fattori, per cui una lotta che si precluda ogni lavoro con gli esclusi può risultare perdente in partenza. D’altro canto, spesso l’oggettiva esclusione e conseguente malleabilità – e adattabilità – rendono gli esclusi maggiormente ricattabili in termini di recupero, quando di già non siano ferventi sostenitori dei propri oppressori. La conflittualità di chi non ha un lavoro, un permesso di soggiorno, grandi possibilità economiche, ecc. viene facilmente sopita e ricondotta nei meandri della partecipazione pacifica/ta con semplici concessioni limitate nel tempo.
Per cui l’intervento specifico distruttivo rimane salda colonna dell’intervento insurrezionale anarchico. A cui però affiancare lotte di più ampio respiro con le fasce di esclusi e gli individui più recalcitranti ai richiami del dominio. Forse questa rimane come unica discriminante: non tanto l’esclusione sociale oggettiva ma la volontà di non volervi soggiacere supinamente.
Restano ancora da fiutare nel vento aliti di malcontento e di esasperazione. Da questi bisogna partire e modellare l’azione per tramutarli in burrasche tempestose di sovversione.
Forse la scelta del terreno di scontro non verrà determinata dalla posta in palio, dall’obiettivo contingente del potere né dalle dimensioni del conflitto, ma proprio da quella insuscettibilità di ogni ravvedimento – ciò che fa di un individuo un pericolo per i pastori di greggi – che ancora fatica a lasciare gli animi di chi ha saputo, nonostante tutto, rimanere uomo o donna. Questi dovrebbero essere i nostri compagni.
A. I.