L’illegalista anarchico di Emilè Armand

Émile Armand
(Parigi 26 Marzo 1872 – Rouen 19 Febbraio 1962)
Anarchico individualista francese.

E. Armand ° E. Armand

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L’illegalista anarchico è nostro compagno?

Nel momento in cui consideriamo il ladro in sé non possiamo dire che lo troviamo meno umano delle altre classi della società.
I componenti di grosse bande di ladri hanno tra loro relazioni fortemente improntate di comunismo. Se essi rappresentano una sopravvivenza di una memoria possiamo anche considerarli come i precursori di un’età migliore nell’avvenire.
Essi sanno, in tutte le città, dove rivolgersi per essere accolti e nascosti. Si mostrano, fino ad un certo punto, generosi e prodighi verso quelli della loro cerchia. Se essi considerano i ricchi come loro nemici naturali, come una preda legittima, punto di vista molto difficile da contraddire, un gran numero di essi è animato dallo spirito di Robin Hood: nei confronti dei poveri, molti ladri danno prova di buon cuore.

(Edward Carpenter: Civilazation, its Cause and Cure.)

Non sono un fanatico dell’illegalismo. Sono un alegale.
L’illegalismo è un ripiego pericoloso per colui che vi si dedica anche solo temporaneamente, un ripiego che non è né da predicare, né da esaltare.
Ma la questione che mi propongo di studiare non è quella di chiedersi se la pratica di un mestiere illegale sia rischiosa oppure no, ma se l’anarchico che si procura il proprio pane quotidiano ricorrendo a mestieri condannati da polizia e tribunali abbia ragione oppure torto ad aspettarsi, di essere trattato da compagno dall’anarchico che accetta di lavorare per conto di un padrone.
Da compagno di cui si difenda il punto di vista alla luce del giorno e che non si rinneghi quando cade nelle grinfie dei poliziotti o degli sputasentenze. (a meno che non chieda che si faccia silenzio sul suo caso).
L’anarchico che pratica l’illegalismo, in effetti, non vuole che lo si tratti da “parente povero”, che non si osi riconoscerlo pubblicamente perché ciò danneggerebbe la causa anarchica; perché il non prendere le distanze da lui, quando i rappresentanti della vendetta capitalista gli si accaniscono contro, rischierebbe di allontanare dal movimento anarchico la simpatia di sindacalisti o la clientela degli anarchici piccolo borghesi.
E’ per questo che l’anarchico illegalista si rivolge al suo compagno sfruttato dal padrone, vale a dire a colui che si sente sfruttato. Non si aspetta tanto di esser compreso da quelli che fanno un lavoro di proprio gradimento. Tra questi, mi sembra scontato, egli vi annovera i dottrinari ed i propagandisti anarchici che diffondono, difendono, espongono delle idee che rispondono alle proprie opinioni.
Sebbene essi non ricavino dal proprio lavoro, che un misero, molto misero salario, la loro situazione morale non è paragonabile alla posizione di un anarchico che lavora sotto la sorveglianza di un caposquadra ed obbligato a subire tutta la giornata la promiscuità di una umanità la cui pratica gli è antagonista.
Ecco perché l’anarchico illegalista nega a colui che svolge un lavoro di suo gradimento di giudicare la propria professione ai margini della legge. Tutti coloro che fanno una propaganda scritta o orale a loro piacimento, tutti coloro che esercitano una professione che gli aggrada, dimenticano troppo spesso di essere dei privilegiati rispetto alla grande massa degli altri, loro compagni, quelli che sono costretti a dedicarsi dalla mattina alla sera, e dal primo gennaio a San Silvestro, a dei compiti per i quali non provano alcun piacere. (1)
L’anarchico illegalista pretende di essere un compagno così come il piccolo commerciante, il segretario del Comune o il maestro di danza che non modificano in nulla e non più di lui, le condizioni di vita economica dell’ambiente sociale attuale.
Un avvocato, un medico, un maestro, possono inviare degli articoli ad un giornale anarchico e fare delle discussioni in piccoli circoli libertari, ciò non elimina i sostegni e i sostenitori di quel sistema che ha rilasciato loro il monopolio di esercitare la propria professione né i regolamenti al quale sono obbligati a sottomettersi se vogliono continuare il proprio mestiere.
Non è esagerato dire che ogni anarchico che accetta di essere sfruttato per conto di un padrone particolare o di un padrone-Stato, commette un atto di tradimento nei confronti dell’ideale anarchico.
In effetti, in tutti i casi, rafforza il dominio e lo sfruttamento, contribuendo a mantenere in vita il sistema autoritario. Senza dubbio, prendendo coscienza delle proprie incoerenze, si sforza di riscattare o di riparare al proprio modo di comportarsi, facendo della propaganda; ma, nonostante la propaganda che possa fare uno sfruttato, si annida sempre in lui un complice dello sfruttatore, un cooperatore del sistema che amministra le condizioni nelle quali ha luogo lo sfruttamento.
Ecco perché non è esatto dire che l’anarchico “che lavora”, che si sottomette al sistema di dominio e di sfruttamento in vigore è una vittima. Egli è sia complice che vittima. Ogni sfruttato, legale o illegale, coopera allo stato di sfruttamento; ogni dominato, legalmente o illegalmente, coopera allo stato di dominio.
Non c’è differenza tra l’operaio anarchico che ha guadagnato 175.000 o 200.000 franchi in trentanni di lavoro e, coi suoi risparmi, si è comprato una casa in campagna, e l’anarchico illegalista che, appropriandosi di una cassaforte contenente 200.000 franchi acquista con questa somma una casa in riva al mare.
L’uno e l’altro sono degli anarchici a parole, è vero, ma la differenza che esiste tra loro è che l’anarchico operaio si sottomette ai termini del contratto economico che i dirigenti dell’ambito sociale gli impongono, mentre l’anarchico rapinatore non vi si sottomette.
La legge protegge sia lo sfruttato che lo sfruttatore, il dominato così come il dominatore, nei rapporti sociali che essi hanno tra loro, e, nel momento in cui si sottomette, l’anarchico è tanto ben protetto nei suoi beni e nella sua persona quanto l’autoritario; la legge non fa distinzione tra l’autoritario e l’anarchico se tutte e due ottemperano alle ingiunzioni del contratto sociale.
Che lo vogliano o no, gli anarchici che si sottomettono, padroni, operai, impiegati, funzionari, hanno dalla loro parte la forza pubblica, i tribunali, le convenzioni sociali, gli educatori ufficiali. E’ la ricompensa della propria sottomissione; quando costringono con la persuasione morale, la forza della legge, il datore di lavoro autoritario a pagare il suo lavoratore anarchico, le forze di conservazione sociale si preoccupano poco del fatto che nella sua intima coscienza o anche esteriormente, il salariato sia ostile al sistema del salario…
Al contrario il non-sottomesso, il refrattario al contratto sociale, l’anarchico illegale, ha contro di lui tutta l’organizzazione sociale, quando, per “vivere la sua vita”, si mette a bruciare le tappe per arrivare immediatamente al traguardo a cui l’anarchico sottomesso non arriverà che più tardi oppure mai. Corre un rischio enorme ed è giusto che questo rischio venga ricompensato da un risultato immediato; se risultato c’Lire.
Il ricorso all’astuzia praticato costantemente dall’anarchico illegalista è un procedimento che impiegano tutti i rivoluzionari. Le società segrete sono un aspetto dell’astuzia. Per affiggere dei manifesti sovversivi, si aspetta che gli agenti se ne vadano in un’altra zona. Un anarchico che se ne va in America nasconde il suo punto di vista morale, politico, filosofico.
Che sia, apparentemente sottomesso o decisamente insubordinato, l’anarchico è sempre un illegale rispetto alla legge; nel momento in cui propaganda le sue idee anarchiche contravviene alla legge speciale che reprime la propaganda anarchica, e ancora di più per la sua mentalità anarchica si oppone alla legge scritta in quanto tale, poiché la legge è la concretizzazione del sistema.(2)
All’anarchico sottomesso che sente di esserlo, l’anarchico insubordinato non può che essergli simpatico; nella sua attitudine illegale, l’anarchico che non ha potuto o voluto rompere con la legalità si riconosce, ovviamente realizzato. Il temperamento, le riflessioni dell’anarchico sottomesso possono portarlo a disapprovare certi gesti compiuti dagli insubordinati, mai a rendergli l’insubordinato personalmente antipatico. (3)
All’anarchico rivoluzionario che gli rimprovera di cercare subito il proprio benessere dal punto di vista economico, l’illegalista ribatte che lui, rivoluzionario, non fa diversamente.
Il rivoluzionario economico si aspetta dalla rivoluzione un miglioramento della propria situazione economica personale; altrimenti, non sarebbe un rivoluzionario; la rivoluzione gli darà ciò che sperava o no, come un’operazione illegale fornirà o meno a colui che la esegue ciò che era previsto. Anche quando la questione economica non entra in gioco, una rivoluzione si fa perché ci si aspetta personalmente dei benefici, un vantaggio di tipo religioso, politico, intellettuale, etico, forse.
Ogni rivoluzionario è un egoista.
Le analisi delle azioni di “riappropriazione” commesse dagli illegalisti hanno una influenza sfavorevole sulla propaganda anarchica, in generale ed in particolare?
Per rispondere a questa obiezione, che è la più importante di tutte, non bisogna perdere di vista un solo istante che l’unità umana trova, venendo al mondo o approdando in un paese qualsiasi, delle condizioni di vita economica che gli vengono imposte.
Quali che siano le proprie opinioni bisogna che lui si sottometta ad una costrizione per vivere tranquillamente (o morire). Laddove c’è costrizione, il contratto non è più valido, poiché è unilaterale, e gli stessi codici borghesi riconoscono che un impegno sottoscritto sotto l’imperio della minaccia è senza valore legale.
L’anarchico quindi si trova costantemente in situazione di legittima difesa contro il dominio o i partigiani del contratto economico imposto. Non si è mai sentito un anarchico che esercita un mestiere illegale teorizzare una società basata sul banditismo universale, per esempio.
La sua situazione, i suoi gesti sono relativi unicamente al contratto economico che i capitalisti o gli unilaterali impongono anche a quelli che alle sue clausole si ribellano.
L’illegalismo degli anarchici non è che transitorio: un ripiego.
Se il contesto sociale concedesse agli anarchici il possesso inalienabile del mezzo di produzione personale, se potessero disporre liberamente e senza alcuna restrizione fiscale (tasse, dogane, dazi), del proprio prodotto, se li lasciasse utilizzare tra loro un valore di scambio che non colpisse con alcuna tassa, a loro rischio e pericolo, l’illegalismo, a mio avviso, ne sarebbe escluso (l’illegalismo economico, si intende).
L’illegalismo economico è dunque puramente accidentale.(4) D’altronde economico o altro, l’illegalismo è funzione del legalismo.
Il giorno in cui l’autorità sarà scomparsa, -l’autorità politica, intellettuale, economica- gli illegalisti scompariranno a loro volta.
E’ su questa via che bisogna orientarsi per far si che la spiegazione delle gesta illegaliste giovi alla propaganda anarchica.
Ogni anarchico, sottomesso o non, considera come un compagno colui tra i suoi, che rifiuta di accettare la servità militare. Non ci si spiega perché la sua attitudine cambi quando si tratta del rifiuto di servire, economicamente parlando. Si comprende chiaramente come degli anarchici non vogliano contribuire alla vita economica di un paese che non accorda loro la possibilità di esprimersi con l’inchiostro, con la parola, che limita le loro facoltà o le loro possibilità di realizzazione o di associazione, in ogni campo. Dal momento che essi lascerebbero i non anarchici comportarsi a loro piacimento.
Gli anarchici che acconsentono di partecipare al funzionamento economico delle società nelle quali non possono vivere a proprio piacimento sono degli incoerenti. Non si capisce perché obiettino a coloro che si ribellino contro questo stato di cose.
Il refrattario alla servità economica si trova obbligato dall’istinto di conservazione, dal bisogno e dalla volontà di vivere, di appropriarsi della produzione altrui. Questo istinto non è solamente primordiale, ma è legittimo, affermano gli illegalisti, se lo paragoniamo all’accumulazione capitalista, accumulazione di cui il capitalista, preso singolarmente, non ha bisogno per esistere, accumulazione che dunque è una cosa superflua.
Ora, chi è questo “altro”, col quale l’illegalista ponderato -l’anarchico che esercita una professione illegale- entra in conflitto? Questi “altri”, sono coloro che vogliono che le maggioranze dominino o opprimino le minoranze, sono i partigiani del dominio o della dittatura di una classe o di una casta su un’altra, sono gli elettori, i sostenitori dello Stato, dei monopoli e dei privilegi che implicano.
Questo altro in realtà è un nemico per l’anarchico – un avversario inconciliabile. Nel momento in cui, economicamente se la prende con lui, l’illegalista anarchico non vede più in lui, non può più vedere in lui che uno strumento del regime autoritario.
Date queste spiegazioni, non sapremmo dare torto all’anarchico illegalista che si considera come tradito nel momento in cui gli anarchici che hanno preferito seguire un cammino meno tortuoso di quello che egli ha intrapreso, l’abbandonano o non si preoccupano di spiegare la propria attitudine.
Ripeto quello che ho detto all’inizio di queste righe; poiché il ripiego c’è, quello offerto dall’illegalismo è pericoloso all’ennesima potenza ed è tutto da dimostrare che i benefici superino i costi; quando avviene è un caso del tutto eccezionale.
L’anarchico illegalista che è gettato in prigione non ha da sperare in alcun favore, dal punto di vista della libertà condizionata o della riduzione della pena; il suo dossier, come si dice, è segnato con l’inchiostro rosso.
Ma fatta questa messa in guardia, bisogna inoltre segnalare che l’illegalismo esige, per essere praticato seriamente, un temperamento eccezionalmente saldo, un sangue freddo, una sicurezza di sé che non sono alla portata di tutti.
Come per tutte le esperienze della vita anarchica che non si accordino con la routine dell’esistenza quotidiana, c’è da temere che la pratica illegalista si impossessi ad un punto tale della volontà e del pensiero dell’illegalista che lo renda insensibile a qualsiasi altra attività, a qualsiasi altra attitudine. E’ d’altronde lo stesso per certi piccoli mestieri legali che risparmiano a colui che li esercita la presenza in fabbrica o all’ufficio.
CONCLUSIONI
Les anarchistes économiques, i dirigenti e i governanti economici impongono ai lavoratori delle condizioni di lavoro incompatibili con la nozione anarchica della vita, ossia con l’assenza di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
In principio, un anarchico rifiuta di lasciarsi imporre delle condizioni di lavoro, di lasciarsi sfruttare: non accetta che alla condizione di abdicare, di sottomettersi. E non c’è differenza tra sottomettersi a pagare le tasse, sottomettersi allo sfruttamento e sottomettersi al servizio militare.
Che la maggior parte degli anarchici si sottometta, è sottinteso. “Si ottengono vantaggi dalla legalità giocando d’astuzia con lei, ingannandola piuttosto che prendendola di petto.”
E’ esatto. Ma l’anarchico che gioca d’astuzia con la legge non ha da esserne fiero. Così facendo fugge alle pericolose conseguenze della non sottomissione, alle galere, alla “più abietta delle schiavità”. Ma se non ha da subire tutto ciò l’anarchico sottomesso deve fare i conti con la “deformazione professionale”; a forza di essere esteriormente conforme alla legge, numerosi anarchici finiscono per non reagire affatto e passare dall’altra parte della barricata.
Ci vuole un temperamento eccezionale per giocare d’astuzia con la legge senza cadere nella rete della legalità!
Quanto all’anarchico produttore n el contesto economico attuale, è un mito. Dove sono gli anarchici che producono valori antiautoritari? Quasi tutti gli anarchici concorrono con la loro produzione a mantenere lo stato di cose economico.
Non mi si farà mai credere che l’anarchico che costruisce prigioni, caserme, chiese; fabbrica armi, munizioni, uniformi; imprime codici, libri religiosi, li restauri, li trasporti, li venda, fa della produzione antiautoritaria.
Anche l’anarchico che confeziona degli oggetti di prima necessità ad uso degli elettori e degli eletti mente alle proprie convinzioni. Non ci provino neanche dei propagandisti verbali o uomini di lettere ad accusare gli individualisti oscuri di trarre del beneficio materiale dalle proprie idee.
Non conta affatto il beneficio “morale” e a volte pecuniare che gli procurano i loro sforzi? La celebrità diffonde i loro nomi “da una parte all’altra del mondo”; hanno dei discepoli, dei traduttori, dei diffamatori, dei persecutori.
Perché contano così tanto? Trovo ragionevole che ogni sforzo riceva salario, in tutti i campi: è ragionevole che se si patisce per le proprie opinioni, se ne tragga anche del profitto. Ciò che importa, è che con la violenza, con l’inganno, con l’astuzia, con il furto, con la frode o l’imposizione di qualsiasi tipo, questo profitto non si realizzi ai danni dei propri compagni, di quelli del “proprio mondo”.
Nell’attuale contesto sociale, l’anarchia si estende da Tolstoi a Bonnot: Warren, Proudhon, Kropotkine, Ravachol, Caserio, Louise Michel, Libertad, Pierre Chardon, Tchorny, le tendenze che essi rappresentano o che rappresentano certi animatori o incitatori viventi, i cui nomi importano poco, sono come le sfumature di un arcobaleno dove ogni individualità sceglie il colore che meglio si addice alla propria visione.
Da un punto di vista strettamente individualista anarchico, ed è qui che concluderei, il criterio del cameratismo non sta nel fatto di essere impiegato di ufficio, operaio di fabbrica, funzionario, venditore ambulante, contrabbandiere o scassinatore – ma in come, legalmente o illegalmente, il MIO compagno cercherà prima di forgiare la propria individualità e di diffondere le idee antiautoritarie ovunque potrà e infine – rendendosi la vita tra affini la più gradevole possibile – nel ridurre ad un minimo sempre più tenue la sofferenza inutile ed evitabile.

Note

(1) Un giorno a Bruxelles, discutevo la questione con Elisée Reclus. Mi dice, per concludere: “Faccio un lavoro che mi piace e non mi riconosco il diritto di dare un giudizio su quelli che non vogliono fare un lavoro che non gli piace”

(2) Benché non abbia le statistiche, la lettura dei giornali anarchici indica che il numero dei condannati , a torto o a ragione, -alla prigione, all’ergastolo, alla ghigliottina, o uccisi sul campo- per fatti di agitazione anarchica rivoluzionaria (tra cui “la propaganda del fatto”) supera di gran lunga il numero dei condannati, a torto o a ragione, o uccisi sul campo, per illegalismo. In queste condanne, i teorici dell’anarchismo rivoluzionario hanno una grossa responsabilità, poiché non hanno mai dedicato alla propaganda in favore del gesto rivoluzionario quelle riserve che oppongono alla pratica dell’illegalismo gli “interpreti” seriosi del gesto illegalista.

(3) L’anarchico, il cui illegalismo attacca lo Stato o degli sfruttatori conosciuti, non ha mai indisposto “il lavoratore” nei confronti dell’anarchismo. Mi trovavo ad Amiens durante il processo Jacob, che sovente si attaccò a degli ufficiali coloniali; grazie alle spiegazioni di Germinal i lavoratori di Amiens simpatizzavano molto per Jacob e per le idee di esproprio individuale. Anche se non anarchico, l’illegale che se la prende con un banchiere, un industriale, un fabbricante, un tesoriere, un furgone postale, ecc., resta simpatico agli sfruttati che considerano come dei servitori o delle spie i salariati che difendono i quattrini o le banconote del padrone, privato o Stato. Centinaia di volte ho avuto modo di constatarlo.

(4) Socialmente parlando, il giorno in cui le spese a guardia della proprietà supereranno quello che fruttano, la proprietà, figlia dello sfruttamento, sarà sparita.

emile-armand

Scritto tratto da http://ienaridensnexus.blogspot.it

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