IL PARADOSSO DELL’AUTORIZZAZIONE

Poche parole, un ragionamento ad alta voce su un fenomeno curioso. L’abitudine di molti dei compagni
anarchici di scegliere come discriminante relativa alla “partecipazione” ad una iniziativa la preventiva
comunicazione data agli sbirri. Riassumendo all’osso, ci si muove spesso e volentieri solo se viene data una
tacita “autorizzazione” da parte della polizia. A dirla in questa maniera, più che di curioso sarebbe giusto di
parlare di fenomeno pietoso.
Ma facciamo un po’ di chiarezza.
Il riferimento normativo che regolamenta il caso in esame è disciplinato dal T.U.L.P.S. (Testo Unico delle
Leggi di Pubblica Sicurezza), regio decreto n. 773 del 18 giugno 1931, e più precisamente dall’art. 18 il quale
sanziona i promotori di una pubblica riunione o manifestazione che non ne danno avviso al questore entro i
tre giorni precedenti. Una volta data questa comunicazione, la questura può autorizzare l’iniziativa, emettere
alcune prescrizioni relative allo svolgimento della stessa o vietarla del tutto.
Volendo fermare il ragionamento al più infimo livello, ciò quello legale, il discorso è semplice: la punibilità
si applica solo ai cosiddetti promotori dell’evento. Quali siano i criteri per individuare uno o più promotori
all’interno di gruppi – come quelli anarchici – non riuniti sulla base di una struttura gerarchica non è dato
saperlo. L’esperienza ci insegna che gli sbirri, non potendo individuare un posizione che non esiste – quella
del promotore, appunto – spesso tendono a colpire tutti i partecipanti ad una manifestazione non
autorizzata/preavvisata con l’art. 18. I risultati sono quasi sempre gli stessi: archiviazione del procedimento;
decadimento dello stesso in sede di riesame in caso di perquisizioni e contestuali sequestri; emissione di una
sanzione il cui ricorso al giudice di pace viene quasi sempre accolto.
Finita con questa abiettezza, dovremmo essere a posto. E invece no, finito di grattare il fondo di un barile si
passa ad un barile ancora più lurido.
Se siamo arrivati a capire quanto risibile sia una denuncia di questo genere, quali altre sono le ritrosie?
Che forse, dietro un “assennato” timore di immotivate denunce si celi una ben più corposa paura?
Forse abbiamo centrato il bersaglio.
Dietro ai mille ragionevoli discorsi intorno alla situazione oggettiva, ai risvolti repressivi, alla sicurezza degli
oggetti e dei compagni e cagate simili, fa capolino la solita paura dell’autorità.
Che, in previsione dell’organizzazione di un’iniziativa o nel momento della scelta se “parteciparvi” (diversa
attitudine dal “vivere” una situazione) o meno, la preoccupazione principale sia l’autorizzazione dei
massacratori è desolante. Spesso quando si tratta di azioni contro la repressione, lo sbirro dovrebbe diventare
ancor più del solito un obiettivo e non un interlocutore cui sottoporre la richiesta di poter “manifestare” (cosa
poi? perché?). Il mondo va alla rovescia invece.
Viviamo quindi il paradosso secondo cui per portare un minimo di solidarietà ai reclusi si debba chiedere il
permesso di farlo a quelle stesse istituzioni che ne hanno sancito la carcerazione. Anche le iniziative più
“combattive” – sulla carta ovviamente – ossia quelle contro gli attacchi repressivi partono dal preavviso e dal
successivo dialogo con la questura. Col risultato di aver incasellato poche ore di “lotta” in qualche modulo
da questurino bastardo.
Che questa merda sia sotto gli occhi di tutti è indiscusso, come altrettanto lo è il voltarsi spesso e volentieri
dall’altra parte; forse per imbarazzo, forse per viltà.
Chiaramente non si possono negare le “sicurezze” che l’autorizzazione poliziesca garantisce: svolgimento
(in modo pacifico o con “danni” limitati) dell’iniziativa e incolumità penale per chi vi partecipa.
Ma sarebbe il momento – ben tardo a dire il vero – di chiedersi se questo basta o se sia il massimo a cui
aspirare. Se sia giusto barattare l’imprevedibilità distruttiva con una tranquillità da casellario giudiziario.
Per chi scrive doversi abbassare a chiedere il permesso, pur in modo velato, per potersi muovere quel
minimo sindacale che contraddistingue sempre più il nostro agire è degradante.
Ci ritroviamo sempre ad annaspare in una insanabile contraddizione in cui le labbra sono infarcite di fiele
contro le divise mentre la prassi ne dimostra invece un implicito asservimento.
Da sempre combattiamo il realismo politico per poi soggiacervi dietro gli angoli delle banalità di base.
Anche un minuzia come rifiutarsi di concedere preavvisi e richiedere autorizzazioni di sorta sarebbe un
rialzare la testa dal cesso e un’affermazione di fierezza e di non sottomissione. O, per chi preferisce, una
dimostrazione di coerenza.
Per concludere, una domanda:
Ci riempiamo la bocca di rivoluzione e affermiamo di lottare per arrivare ad essa tramite la lotta.
MA PER FARE LA RIVOLUZIONE,
DAREMO PRIMA UN PREAVVISO AI NEMICI PERCHÉ CE LA AUTORIZZINO?
Ma davvero siamo sicuri di voler rivoluzionare il mondo? Sarebbe da domandarselo veramente…

 

S.

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